filmato in un bianco e nero terso e assai coinvolgente, Nebraska, candidato perdente all'ultima corsa agli Oscar, ha dalla sua una serie incontestabile di meriti: primo tra tutti l'aver riportato in auge, a quasi ottanta anni, una sincera faccia da cinema come quella di Bruce Dern, character dai tratti inconfondibili visto in mille western americani prima (era la faina che sparava alle spalle John Wayne sul set de I cowboys) e poi in numerose opere seminali della New Hollywood degli anni '70 (è stato diretto da gente come Pollack, Kazan e Ashby). Per l'interpretazione del vecchio ubriacone Woody, convinto di esser diventato milionario, Dern (noto alle ultime generazioni più per essere il padre della bella Laura che per i suoi trascorsi decennali al servizio della Settima Arte) si è aggiudicato al 66° Festival di Cannes la coppa per la migliore interpretazione maschile. Ma assieme a lui il film di Alexander Payne (firmò qualche tempo fa Sideways, altra godibile operetta sul vino e le ambizioni che sfioriscono) ha riacceso i fari anche su Stacy Keach, altro attorone che alla cinematografia di quegli anni formidabili ha dato tanto (era, per dirne una, il pistolero albino di L'uomo dei sette capestri, ma anche un indimenticato Mike Hammer per la televisione).
Nebraska, progetto low-budget che il regista ha inseguito per anni prima di riuscire a mettere a segno, narra le vicende di un caparbio vecchietto (eccentrico e anche un po' rincoglionito) e del suo sogno on the road verso lo stato eponimo dove crede di aver diritto a un premio che non esiste, riuscendo sicuramente a rendere grande una piccola storia di epica senile, allestendo al contempo uno sguardo non manierato sulla provincia statica e dilaniata dalla crisi di un'America di periferia (il grande, eterno serbatoio della Grande Letteratura a stelle e strisce).
Detto questo, e rimarcata l'impossibilità da parte di chi scrive di trattenere i lacrimoni causa totale identificazione con la storia sullo schermo (il padre del titolare del blog, ottantenne in lotta con le scalfitture del tempo, viaggia senza tema di smentita in un presente assai aderente a quello di Woody/Bruce Dern) si può provare a identificare qualche pecca che il generale entusiasmo per il prodotto finale ha magari messo in secondo piano.
Magnificato dalla prova di un cast oggettivamente in parte (come non citare June Squibb, nei panni della moglie del protagonista: una vera gigantessa) il film sembra in fondo girare a vuoto su un'unica idea portante senza riuscire mai a inforcare la scena madre risolutiva: commuove, questo è indubbio, e lo fa senza ammiccamenti facili, ma forse qualche approfondimento in più dei personaggi di contorno rispetto ai ruoli principali avrebbe reso più succoso il tutto e il bilanciamento delle forze in campo sembra talvolta un po' forzato, quasi didascalico: sembra sempre che da un momento all'altro debba giungere una risposta, un riscatto a lungo ventilato (che pure giunge, ma debole e spaesato, il che, ovvio, è magari quanto di più realistico si possa ipotizzare). Resta comunque una pellicola da promuovere, che merita di essere incensata. Sicuramente da vedere.
2 commenti:
Gran faccia Dern. Film poetico ma triste.
Spiace per il tu' babbo...
Ethel
@Ethel concordo (grazie per il babbo, ma c'est la vie!)
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