A dispetto della patina di pubblico disincanto adottata nei confronti di progetti di ripescaggio smaccatamente commerciali come Non aprite quella porta 3d, ennesima variazione in salsa contemporanea del capolavoro di Tobe Hooper (firmata qui da tal John Luessenhop), chi scrive ha scoperto proprio visionando per caso da amici la pellicola in questione di nutrire in realtà più di qualche aspettativa dal nuovo (atteso? necessario?) ritorno di Faccia-di-Cuoio potenziato nella fattispecie dal supposto benefit di una tridimensionalità che francamente comincia a scassare i comesichiamano.
E così, mentre a Venezia si dibatte più o meno dottamente sull'opera di James Franco tratta da Child of God (monumentale romanzo di McCarthy che parla di follia e cannibalismo assurgendo a parabola etica la discesa agli inferi del protagonista) e dopo essersi sciroppati con mestizia crescente gli svariati seguiti dell'originale (inclusi remake e prequel d'ogni risma), ci si scopre ancora in trepida apprensione nello sperare che stavolta - almeno stavolta, cazzo! - qualcuno davvero innamorato del capostipite di una delle saghe horror più longeve e disturbanti del cinema di tutti i tempi abbia deciso di restituirci, se non lo spirito originale, quantomeno una sincera e appassionata rivisitazione del mito della motosega.
I presupposti - ammettendo la liceità di rimettere mani a un'opera d'arte (ché il primo Texas Chainsaw, per quanto uno possa trovarlo dozzinale e stomachevole, di quello si tratta: arte pura e semplice) - c'erano tutti e l'idea di immaginare la nuova storia come una diretta promanazione dell'originale, mandando a ramengo tutto quanto accaduto nel frattempo nei mille altri rivoli filmici, non era poi così peregrina, e infatti sulla carta si prestava a generare non pochi languori tra i fan di Latherface.
Ma, ahinoi!, il film è esattamente ciò che uno spettatore poco meno che sprovveduto si aspetta da un'industria cinematografica ormai chiaramente alla canna del gas: Non aprite quella porta 3d è una cagata che si fa guardare solo e unicamente per due cose (quattro, a contarle bene) e sono queste:
il resto è la rappresentazione plastica (meglio, in celluloide) di come uno script cionco possa far deragliare nella melma una qualsiasi idea interessante. Il perno "rivoluzionario" su cui gli autori hanno deciso di architettare l'operazione dovrebbe essere il legame di sangue che unisce la protagonista al mostro, un po' come avveniva con Jamie Lee Curtis nei seguiti di Halloween, ma è una trovata abusata e gestita senza un briciolo di fantasia. Siamo infatti ancora a Newt, Texas, nel 1974: un gruppo di ragazzi è massacrato dai componenti di una famiglia di cannibali tra i quali spicca il nostro amatissimo colosso dalla maschera di pelle umana. Solo una ragazza si salva e racconta l'accaduto allo sceriffo locale che, con i suoi uomini, stringe d'assedio la casa della famiglia per farsi consegnare Leatherface. La richiesta dello sceriffo è accettata, ma l'arrivo di alcuni redneck incazzati fa precipitare la situazione. La casa viene data alle fiamme e la famiglia sterminata. Si salva solo una neonata, strappata di nascosto alla madre (convenientemente fatta fuori nell'operazione) da uno dei giustizieri per farne dono alla moglie impossibilitata ad avere figli. Parecchi anni dopo, la giovane Heather - proprio lei, la figlioletta sopravvissuta - apprende dai genitori di non essere la loro figlia naturale, ma di essere la progenie di un branco di mostri. Heather decide comunque di andare nella natia cittadina texana, anche perché c'è di mezzo un'eredità da parte della nonna, morta da poco. Il fidanzato Ryan e una coppia di amici la accompagnano per darle sostegno. E di sostegno ne ha davvero bisogno, alla luce di quel che è nascosto nei sotterranei della grande casa di famiglia.
Se nel film originale Hooper aveva scelto il Texas come ricettacolo dell'arretratezza civile, della corruzione e della violenza sociale, con la famiglia di cannibali a rappresentarne la summa in un contesto che la giustificava e l'aveva, di fatto, prodotta, in quest'ultima versione tutto si riduce al confronto stantio e abusatissimo tra assassini sciroccati (e perciò, paradossalmente, «innocenti», come Leatherface) e mostri della vita reale (come il sindaco proto-leghista e giustiziere). Tutto viene portato avanti senz'anima: non un guizzo di regia, non una caratterizzazione degna di essere ricordata. Solo inseguimenti bolsi e qualche strillo sfiatato. E, a testimonianza del completo distacco affettivo dalla materia trattata, fa specie una palese incongruità temporale: la protagonista dovrebbe essere nata nel 1974 e avere quindi 39 anni, ma in realtà ne ha evidentemente molti di meno (poiché è evidente che l'ambientazione del film è la contemporaneità: si fa infatti un largo uso di Iphone e Ipod). Questo però resta il problema minore: Alexandra Daddario vale da sola la visione ma è decisamente un po' poco, in un'epoca in cui per controllarne le misure basta inserire il suo nome su google. E c'è da chiedersi come mai il buon vecchio Zio Clint abbia permesso che il suo figlioccio minore, Scott Eastwood, finisse a razzolare in una boiata siffatta!
Da segnalare, con una nota di tristezza se possibile maggiore, la partecipazione di alcuni "reduci" del progetto principale: Marilyn Burns, la scream-girl del primo Non aprite quella porta, nel piccolo ruolo della nonna e di Gunnar Hansen, il Leatherface originale, in quello, ancora più piccolo, di uno dei membri della famiglia.
E così, mentre a Venezia si dibatte più o meno dottamente sull'opera di James Franco tratta da Child of God (monumentale romanzo di McCarthy che parla di follia e cannibalismo assurgendo a parabola etica la discesa agli inferi del protagonista) e dopo essersi sciroppati con mestizia crescente gli svariati seguiti dell'originale (inclusi remake e prequel d'ogni risma), ci si scopre ancora in trepida apprensione nello sperare che stavolta - almeno stavolta, cazzo! - qualcuno davvero innamorato del capostipite di una delle saghe horror più longeve e disturbanti del cinema di tutti i tempi abbia deciso di restituirci, se non lo spirito originale, quantomeno una sincera e appassionata rivisitazione del mito della motosega.
I presupposti - ammettendo la liceità di rimettere mani a un'opera d'arte (ché il primo Texas Chainsaw, per quanto uno possa trovarlo dozzinale e stomachevole, di quello si tratta: arte pura e semplice) - c'erano tutti e l'idea di immaginare la nuova storia come una diretta promanazione dell'originale, mandando a ramengo tutto quanto accaduto nel frattempo nei mille altri rivoli filmici, non era poi così peregrina, e infatti sulla carta si prestava a generare non pochi languori tra i fan di Latherface.
Ma, ahinoi!, il film è esattamente ciò che uno spettatore poco meno che sprovveduto si aspetta da un'industria cinematografica ormai chiaramente alla canna del gas: Non aprite quella porta 3d è una cagata che si fa guardare solo e unicamente per due cose (quattro, a contarle bene) e sono queste:
topa diffusa: Alexandra Daddario e Tania Raymonde. |
Se nel film originale Hooper aveva scelto il Texas come ricettacolo dell'arretratezza civile, della corruzione e della violenza sociale, con la famiglia di cannibali a rappresentarne la summa in un contesto che la giustificava e l'aveva, di fatto, prodotta, in quest'ultima versione tutto si riduce al confronto stantio e abusatissimo tra assassini sciroccati (e perciò, paradossalmente, «innocenti», come Leatherface) e mostri della vita reale (come il sindaco proto-leghista e giustiziere). Tutto viene portato avanti senz'anima: non un guizzo di regia, non una caratterizzazione degna di essere ricordata. Solo inseguimenti bolsi e qualche strillo sfiatato. E, a testimonianza del completo distacco affettivo dalla materia trattata, fa specie una palese incongruità temporale: la protagonista dovrebbe essere nata nel 1974 e avere quindi 39 anni, ma in realtà ne ha evidentemente molti di meno (poiché è evidente che l'ambientazione del film è la contemporaneità: si fa infatti un largo uso di Iphone e Ipod). Questo però resta il problema minore: Alexandra Daddario vale da sola la visione ma è decisamente un po' poco, in un'epoca in cui per controllarne le misure basta inserire il suo nome su google. E c'è da chiedersi come mai il buon vecchio Zio Clint abbia permesso che il suo figlioccio minore, Scott Eastwood, finisse a razzolare in una boiata siffatta!
Da segnalare, con una nota di tristezza se possibile maggiore, la partecipazione di alcuni "reduci" del progetto principale: Marilyn Burns, la scream-girl del primo Non aprite quella porta, nel piccolo ruolo della nonna e di Gunnar Hansen, il Leatherface originale, in quello, ancora più piccolo, di uno dei membri della famiglia.
2 commenti:
ingenuo te che ti aspettavi chissà cosa ;-)
(Pippo - con rispetto parlando, s'intende!!!)
e c'hai ragione, Pippuzzo! :-)
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