Alla sua quarta prova in cabina di regia, il cineasta statunitense Lucky McKee mette a segno con The Woman (2011) un'opera disturbante e assai incisiva, un film che per mezzo di alcuni stilemi mutuati dal «genere» riesce a sintetizzare l'anima nera dello zeitgeist occidentale proponendo una visione neo-american gothic davvero impressionante. Presentato allo scorso Sundance Festival con grande clamore, The Woman ha suscitato non poca indignazione, meritandosi applausi e qualche fischio nonché la plateale accusa di misoginia. Eppure, per quanto imperfetta e magari qua e là iperbolica, la pellicola di McKee è tutto fuorché misogina poiché proprio l'eterno femminino è posto al centro della storia, diventandone il fulcro portante e l'anima stessa: seguito ideale del poco conosciuto The Offspring del 2009 - storia di una tribù cannibale ai nostri giorni firmata da Andrew van den Houten con il più grande scrittore del perturbante odierno, Jack Ketchum, in veste di sceneggiatore che qui torna a supportare lo script di McKee - The Woman, che resta un prodotto a sé stante e non un sequel, affronta numerosi snodi della contemporaneità cercando di fare il punto sull'ipocrisia delle convenzioni sociali e sulla patina di normalità con cui la cosiddetta "società civile" è solita, per convenienza o per abitudine, ricoprire le efferatezze che si celano nelle maglie della quotidianità.
Troviamo quindi una famigliola apparentemente perfetta: lui (Sean Bridgers, adeguatissimo al ruolo) avvocato immobiliare di discreto successo, lei (un'intensa Angela Bettis, vera musa ispiratrice del regista) casalinga devota, i figli sufficientemente problematici ma tutto sommato regolari.
Durante una battuta di caccia il capofamiglia incoccia in una redneck zannuta che vive allo stato brado (la woman del titolo, interpretata da una brava Pollyanna McIntosh, generosa nel mostrarsi spesso nuda e maestosamente bestiale): l'uomo decide così di catturare la selvaggia, la conduce in catene nella cantina di casa e lì la tiene relegata come un cane, mostrandola trionfalmente ai famigliari alla stregua di un trofeo. Il tranquillo padre di famiglia si rivelerà presto per ciò che è davvero: un razzista pervertito e sciovinista che non si farà scrupolo a violentare la prigioniera mentre l'adorabile mogliettina Belle, sulle prime ingelosita dall'invasione del proprio focolare ma ben presto doma, dovrà assistere impotente al crescendo di sevizie cui il marito inizia anche il giovane figlio maschio, sorta di suo clone in chiave se possibile peggiorativa; solo la teenager di casa, Peggy (Lauren Ashley Carter), anch’essa succube delle ire paterne, sembra provare una qualche empatia verso la donna in catene. Si assiste così, come si può intuire, a una netta separazione tra un mondo di maschi dispotici, irragionevoli e violenti e una dimensione femminile sulle prime contratta e relegata al ruolo di mera propaggine salvo esprimersi poi in tutta la sua esplosiva spietatezza attraverso la vendetta dell'antropofaga: una volta libera, infatti, la donna non si farà alcuna remora nel far vedere i sorci verdi ai propri aguzzini (esemplare, al riguardo, la scelta vincente del regista di dare improvvisamente corpo allo splatter più estremo dopo aver trattenuto praticamente per l'intero film ogni facile effetto cruento).
Diretto con mano ferma, corredato di una efficace colonna sonora e fotografato in maniera adamantina, The Woman imbastisce a ben guardare un interessante discorso sulla Donna, eleggendone la figura ad archetipo: essa è Madre, Vittima, Natura e al tempo stesso Bestialità, Vendetta e Morte. Mentre il maschio, a dispetto di ogni accusa di misoginia, ne esce invece con le ossa rotte, poco più di un fuco dalle smanie incontrollabili e le infantili esigenze che ne fanno un tiranno abbastanza patetico nella sua prevedibile fenomenologia. Per approfondire questa formativa visione (sicuramente non per stomaci deboli, sia chiaro!) il titolare del blog consiglia di leggere la bella disamina fatta qui, ma è notevole anche ciò che dice uno dei primi entusiasti del titolo, ossia il vecchio Elvezio Sciallis, che qui ne parla magnificando - a ragione - il connubio Ketchum-McKcree.
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