Peccato. L'idea di fondo di questa boiata di
Bitch Slap (2008) in mano a un regista vero poteva fare faville. Invece no:
Rick Jacobson ha imparato (imparato?) a piazzare la cinepresa lavorando per il piccolo schermo, con i telefilm
epic-trash di
Sam Raimi come
Hercules o
Xena, e si vede! La storia segue le protagoniste Trixie, Hel e Camero, tre belle patonze (un po' troppo siliconate), giungere in una remota macchia desertica, che poi si rivelerà piuttosto affollata, per impadronirsi di 200 milioni di dollari che anche mafiosi e tagliagole assortiti sono decisi a non mollare. Già nei primissimi istanti del film (film?) il regista «smarmella» senza misura
split screen,
chroma key e ralenti su dettagli anatomici - tra l'altro dopo un notevole
pout-purri di immagini anni Settanta nei titoli di testa che aveva davvero fatto ben sperare - catapultando lo spettatore in quello che doveva essere un paradiso di abitini succinti e bagnati, violenze sadiche, armi falliche, baci saffici. Ma tutto appare sin da subito laccatissimo, insensato, pesantissimo e scritto coi piedi.
Se il modello dichiarato è il grande
Russ Meyer (
Faster Pussycat, Kill, Kill), re delle circonferenze pettorali in celluloide,
Jacobson ne equivoca in toto gli insegnamenti e dimentica di mettere il cuore nel suo inutile mosaico di scenette fracassone, ambientate tutte in un unico set fornito di roulotte sgangherata e
wind-mill d'ordinanza (si cambia
locations solo nei reiterati
flash-back, dove gli sfondi sono rigorosamente digitali, anche quando si tratta solo di parcheggi). Le tre belle figliole, ognuna assimilabile a un preciso immaginario erotico (la spogliarellista caritatevole, la virago indomabile e selvaggia e la
working-girl volitiva), combattono a mani nude o brandendo pantagrueliche mitragliatrici, si scambiano baci roventi, giocano coi secchi d'acqua, trovano scuse e motivi per strapparsi i vestiti di dosso e mostrare vizi e virtù dei loro corpi.
Un tripudio fumettoso di sequenze più laccate che efficaci, figlie d'un erotismo manierato alla
Penthouse (tra l'altro assai poco arrapante) prim'ancora che di un'idea di trasgressione sincera e divertente, qualcosa che - rispetto a
Tarantino o a
Rodriguez, altri modelli palesi cui il nostro registucolo guarda con maniacale epigonismo - non permette alcun reale scarto di stile, così come restano blandi e gratuiti i tributi all'
exploitation dei begli anni che furono.
Kevin Sorbo, Hercules televisivo d'un certo successo, compare per 30 secondi vergognandosene un po', ma aveva da pagarsi l'ultima rata del mutuo. Peccato davvero, fiasco totale per un'operazione che poteva fornire spunti interessanti. Salviamo solo la grafica dei
poster (molto sporca e
southern: ne vedete qui nel post alcuni fulgidi esempi) e qualche guizzo nel linguaggio, qualche frase ben assestata nel vero e proprio florilegio d'insulti pop. Ma è un po' poco per più di cento minuti di pellicola da vedere col tasto premuto sul
fast-forward. Bleah!
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