The Tree of Life è una festa per gli occhi, uno spettacolo maestoso che contiene tanto, tutto, forse troppo; opera dalle ambizioni evidentemente ipertrofiche, l'ultimo - il quinto - attesissimo lungometraggio del regista di culto Terrence Malick costringe il pubblico a scegliere tra la bellezza struggente di un apparato visivo assolutamente inarrivabile (come l'altro mito Stanley Kubrick, il regista proviene dalla fotografia, e si vede) e la riluttante accettazione del poderoso - quanto invasivo - empito mistico che serpeggia per le più di due ore di durata della pellicola. La piccola storia di una «tipica» famigliola felice del Midwest, sullo scorcio di quell'età archetipica per gli Stati Uniti che sono gli anni '50, viene plasmata dal cineasta texano facendola assurgere a paradigma dell'intero arco esistenziale del mondo: bersagliata dal fato ostile attraverso la morte di uno degli amati figli, per gli O'Brien (e con essi l'umanità intera) il tempo si fraziona, regredisce, torna al Big Bang e rivive la genesi di tutte le cose, si libra tra i pianeti, fissa l’esplosione solare e si ammalia in un primordiale gesto di pietà sino a implodere: saranno le geometrie vuote e ultramoderne della Houston contemporanea, la città in cui vaga il figlio degli O'Brien sopravvissuto e ormai adulto (un sempre esaltante Sean Penn, la cui presenza sullo schermo pare sia stata - con gran scorno dell'attore - assai ridimensionata al montaggio) a rinnovare il ciclo, facendosi nuova sbigottita Creazione, un cosmo catafratto in perenne ripopolamento. La pretesa più che manifesta (e in parte ottemperata) del grande regista è quella di realizzare un'«opera mondo» capace di condensare l'«essenziale prolissità» della nostra esistenza: spiritualismo e simbolismo si mescolano (quasi) sempre con sapienza ed equilibrio in una girandola solenne che strega lo spettatore predisposto alla riflessione (niente pop-corn e bibita extralarge in sala!), perché sono incantevoli le istantanee dei bambini che crescono: i primi passi, i giochi nel giardino, le complicità tra fratelli, i buffetti, le prove di lealtà, le lacrime condivise, i baci, le mani che si toccano attraverso un vetro.
Ed è carica d'una eccezionale empatia l'interpretazione introiettiva di un sempre più bravo Brad Pitt, padre autoritario quanto amorevole e pieno di difetti, mentre risultano forse poco amalgamate - per quanto fantastiche, emozionanti e girate in maniera ovviamente superlativa - le immagini dell'universo che si espande, un «tutto» dotato di un potere evocativo intenso che però a volte si fa fatica a cogliere perché comunque non sempre facilmente assimilabile alla minuta, intima storia degli O’Brien. Il rischio è di trarne un'impressione duale e spaccata tra due film, due tronconi narrativi contenuti in un'unica direttiva non lineare (magari anche volutamente tale). Ma sarebbe sbagliato, davanti a una simile opera d'arte, soffermarsi sui difetti. The tree of life resta film imprescindibile nel panorama della cinematografia odierna, sia che lo si adori, sia che lo si condanni. Perdendoci senza preconcetti nel suo composito affresco di natura sublime, ron-ron riflessivo dei personaggi e improvvise aperture cromatiche (un mosaico suggellato dalle straordinarie note della colonna sonora), questa pellicola riesce a regalare emozioni davvero intense: e questo è un risultato che solo giganti come Malick possono portare a casa.
2 commenti:
Va bene. Prima perplessa, ora convinta. Lo vedremo e si vedrà.
@Annalisa: ma infatti perplime assai, però emoziona molto :-)
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