sabato 14 maggio 2011

a nervi tesi...

Tratto dall'omonimo romanzo di Massimo Carlotto, Arrivederci amore, ciao (2006) è un serratissimo noir di notevole fattura, al punto da sembrare - qualche perdonabile sbavatura a parte - una pellicola realizzata al di là delle Alpi se non addirittura oltreoceano. Narra la storia di Giorgio Pellegrini (Alessio Boni), ex-terrorista rosso deciso ad abbandonare la propria militanza rivoluzionaria per rifarsi una vita. Per realizzare il suo intento costui svende senza troppi scrupoli i suoi vecchi compagni in cambio d'un forte sconto di pena: una volta fuori dal gabbio inseguirà una paradossale ascesa verso la rispettabilità, protetto e incoraggiato dall’ipocrisia di un Nord-Est fin troppo compiacente. Ma sempre sotto la minaccia del corrottissimo Anedda (Michele Placido in versione sarda), vicequestore della Digos, che lo tiene in pugno con le prove della sua antica colpevolezza. La resa dei conti sarà inevitabile e sanguinolenta.
Nella sua faticosa ricerca di un'onestà in verità solo apparente, mai realmente agita, il personaggio interpretato da Boni (altre volte troppo «strillante» e incazzoso per essere pienamente convincente) è qui un cattivo "definitivo", assolutamente credibile. Quasi in una sorta di secco contraltare del Matteo Carati, il poliziotto de La Meglio Gioventù, il suo Giorgio Pellegrini non ha sfumature, non ha cedimenti, né redenzione. È un gaglioffo che rappresenta l'epitome (peggiore) di quella generazione che aveva intrapreso la via scellerata della lotta armata e che tra pentitismo, delazioni e ricatti incrociati è riuscita bene o male a sfangarsela. Giorgio Pellegrini è quindi un assassino spietato oltreché un odioso ricattatore, un uomo che, pur sperimentando sane aspirazioni sentimentali, cerca di assecondarle attraverso l'unico linguaggio che gli appartiene: la violenza. Pertanto la sua pur sincera attrazione per la bella Flora, interpretata con consueta espressione truce da Isabella Ferrari, si risolve nel carpirle sesso in cambio dei debiti di droga del marito; e più tardi pure il matrimonio con una ragazza acqua e sapone di nome Roberta non basterà a frenare la sua irrefrenabile pulsione verso il crimine.
Assente dal Grande Schermo dai tempi di Dellamorte Dellamore del '93, l'altalenante ma assai dotato regista Michele Soavi (La chiesa e La Setta tra i suoi cult) si è ultimamente riguadagnato il plauso grazie a fiction televisive di grande audience, anch'esse focalizzate attorno a episodi della nostra storia più recente: da Ultimo 2 - La sfida alla Uno Bianca fino a L'ultima pallottola. Con quest'ottimo film riesce a liberarsi in una sola botta dell'eredità malmostosa del suo mentore Dario Argento (per quanto la sequenza dell'incubo «mortale» di Roberta, con l'overload della canzone che dà il titolo al film, saldi più d'un debito col Grande Vecchio - ormai rincoglionito! - dell'horror nostrano) nonché di un certo modo di concepire i film di genere in chiave "Anni '70", metodologia che onestamente un po' ha stufato. Soavi, bravo professionista, riesce a tenersi sulla soglia del virtuosismo evitando di essere gratuitamente arty. Uniche pecche forse stanno nel disegno di alcuni personaggi, soprattutto quelli secondari (che senso ha chiamare un fuoriclasse come Carlo Cecchi per farlo stare due-minuti-due sulla scena?) e in un certo scollamento della tensione qua e là. Però il ritmo tiene, assolutamente. E Michele Placido fa il suo porco lavoro giocandosi con mestiere la carta del grottesco attraverso la figura del vice-questore della Digos leccatissimo ed il suo insinuante crescendo di ricatti (che riporteranno Giorgio a delinquere) sino al capitolo di chiusura, feroce e nerissimo. Avercene ancora, di pellicole così, quaggiù.

4 commenti:

Annalisa ha detto...

Non so, non so... devo rivederlo.
Mi piace molto molto molto Carlotto e dopo ver letto il libro il film mi ha in qualche modo delusa (succede, no?).
Però, ora che è passato del tempo, e il libro è lontano, potrei rivederlo e chissà.
Intanto, però, mi hai fatto venire voglia di rileggere Carlotto.

sartoris ha detto...

A me è Boni che non mi appassiona. Non so, è bravo, però c'ha 'sta antipatia urlata, non sembra capace di riflessione (oppure, più semplicemente, sono io che non ne colgo la profondità:-)

Alex ha detto...

Devo ancora finire di vederlo,anche a me Boni fa la tua stessa impressione. Il romanzo di Carlotto comunque è inarrivabile e il suo seguito appena uscito conferma il giudizio. Non esistono nella narrativa italiana contemporanea protagonisti spietati, geni del crimine creativo, teste di c....come Giorgio Pellegrini.
Carlotto è un gigante del noir e non solo...ma anche tu non scherzi:-)
Se penso ai tuoi romanzi, mi viene in mente ogni volta Figlio di Dio del grande McCarthy, non so perchè, ma è così. Complimenti per i tuoi libri e per questo sgaggissimo (così si dice dalle mie parti) blog.

sartoris ha detto...

@ ciao Alex grazie di essere passato.
Ti ringrazio anche per gli apprezzamenti: non ti nascondo che avevo bene in mente FIGLIO DI DIO quando ho scritto UOMINI E CANI, l'eremita del mio romanzo deve sicuramente tanto a quello del grande bardo del Texas, ma in fondo anche lui deve aver scritto quel suo fantastico libro (e tutti gli altri venuti dopo) pensando alle figure intagliate nella roccia di Faulkner, praticamente il Dio di tutto gli scrittori odierni (o giù di lì) :-)

torna a trovarci!!! (bello sgaggissimo!)