domenica 12 dicembre 2010

il mostro di Roma...

Un caso di cronaca tristemente famoso, quello dello sventurato Gino Girolimoni, accusato in pieno ventennio fascista dell'assassinio di sette bambine nella Capitale: alla follia della collettività che esigeva un colpevole si aggiunse l'aberrante punto d'onore d'un regime che si proclamava infallibile. Fotografo piacione e traffichino, amante della bella vita, Girolimoni venne arrestato sulla scorta di prove assai labili e proclamato quindi «mostro» dai giornali che, più o meno volontariamente, assecondarono col suo caso l'opera di distrazione del popolo dalle reali condizioni del paese e promossero i metodi autoritari del regime. Ma l'uomo era innocente e, nonostante le pressioni, la polizia si vide costretta a liberarlo. Scarcerato alla chetichella, Girolimoni non venne mai riabilitato agli occhi del pubblico per non infangare la dittatura col marchio dell'errore, accollandosi perciò, per tutta la vita, una reputazione da infame. Senza colpe, scontò l'ipocrisia d'una società che stava affossandosi nel fanatismo all'ombra del Fascio Littorio.
Nel 1972 il regista Damiano Damiani portò sul grande schermo la vicenda attenendosi ai fatti e ai documenti in possesso delle cronache: il protagonista viene presentato allo spettatore assieme ad una Roma in cui è palese il contrasto tra chi maneggia il potere e chi invece vive di stenti (a occhio non dissimile da quella attuale, allora!). Assistiamo alla cattura dell'indiziato, all'impotenza dei pochi giornalisti dubbiosi, alle manovre dei politici afflitti da rampantismo cronico che sfruttano la popolarità del caso; poi tutto scorre, la Storia compie il suo corso: Girolimoni esce dal carcere e nessuno se lo fila. Lo ritroviamo clochard misconosciuto e un po' sciroccato nella Roma del boom economico, dove morirà in assoluta povertà.
Bella pellicola satura di caratteristi come usava all'epoca, l'opera di Damiani ha forse il difetto di ammassare troppa roba, troppi concetti: partendo dalla fedele ricostruzione degli ambienti capitolini sotto l'egida del Duce si toccano senza avere il tempo di approfondirli numerosi temi interessanti come l'asservimento della stampa, i rapporti tra potere e magistratura, l’ignoranza caciarona del popolino. Il regista è maestro nel dosare i ritmi della vicenda umana con l'isteria della massa, ma risulta tuttavia didascalico quando inserisce la fucilazione d'un anarchico per sottolineare la durezza del regime. E se gli attori in parte sono tanti, alcuni risultano forse troppo sopra le righe - in primis un Duce raffigurato perennemente in posa statica, alla maniera di un busto. Mario Carotenuto convince abbastanza nel ruolo del primo indiziato inseguito dalla folla inferocita e infine suicida per disperazione, ma Nino Manfredi nella parte del protagonista è - al solito! - un interprete gigantesco. In quegli anni l’attore attraversa forse il suo periodo più intenso e produttivo, quella maturità che gli aveva fatto superare lo status di comico televisivo per assurgere ad attore drammatico completo. Il Girolimoni da lui indossato è un vestito dal colore cangiante, una figura plausibile e, considerando la tragicità del ruolo, commovente in maniera non stereotipata. Si fa infatti carico di un dolore titanico (soprattutto se si considera che scaturisce da un episodio realmente accaduto) che Manfredi attenua come solo i grandi sanno fare, fornendo il personaggio di mordaci nuances d'ironia per farne un tipo capace di esibire sarcasmo e disincanto anche quando vien pestato a sangue nel chiuso di una cella. Poi all'uscita dal carcere la recitazione dell'attore vibra con sublime bravura tutte le corde della depressione, trasmettendo per intero allo spettatore lo sconforto di chi, dinanzi a una profonda ingiustizia, sperimenta l'impotenza più totale. Imperfetto come molti film di Damiani, Girolimoni il mostro di Roma resta incollato al cuore di chi lo (ri)vede per lo sguardo sincero e sofferto.

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