Oggi molto di fretta, giusto il tempo di segnalare un bell'articolo de L'Eugenio sulla poetica del vecchio Cormac.
«È da metà degli anni sessanta – il suo primo libro, Il guardiano del frutteto (Einaudi 2002) è del 1965 – che Cormac McCarthy ci parla dell’America, dei suoi miti e delle sue angosce. Lo fa scegliendo un punto di vista particolare, quello del genere western, ma trasfigurandolo fino a mutare il sogno della frontiera in un incubo dalle tinte foschissime. La lente attraverso cui guardare le vicende di una nazione, e degli uomini che ne fanno parte, non viene quindi puntata su Hollywood, il crollo di Wall Street o Pearl Harbor ma su pianure desolate, praterie e deserti, città fantasma, luoghi di frontiera che diventano puntualmente terre di nessuno, desolato teatro di una “scena primaria” sanguinaria e ancestrale. In Meridiano di sangue (Einaudi 1996) e nei romanzi della Trilogia della Frontiera (Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Città della pianura, tutti Einaudi 1995, ’96, ’99) il “destino manifesto” del paese, la sua, autoattribuita, missione civilizzatrice (si veda il bel saggio di Anders Stephanson: Destino manifesto, Feltrinelli 2004), si svela in tutta la sua ambiguità: la libertà, quella che ieri si cercava all’Ovest e che oggi si esporta in giro per il mondo, è anche, se non prima di tutto, libertà di uccidere chi si vuole, di sopraffare l’altro fino allo sterminio [continua qui...]»
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