In pochi anni questa pellicola di Richard Stanley, girata nel 1990 con due lirette (e si vede), si è guadagnata via-via lo status di piccolo cult-movie per la capacità di condensare l’essenza più pura del cyberpunk con un frullato di atmosfere in puro stile Dune/Mad Max/Pitch Black. Pescando di qua e di là (persino dal western) il cineasta sudafricano sforna un post-atomico che vede il protagonista Moses detto Mo (Dylan McDermott, come da manuale dotato di innesti bionici) vagare in mezzo al deserto radioattivo in cerca di oggetti da rivendere sul mercato nero a seguito di una non ben precisata “Grande Guerra”. Costui, in una delle sue scorribande, trova un teschio di metallo che regala alla propria donna: il manufatto si rivelerà ciò che resta d’una vera «macchina della morte» creata dall’esercito e che, in breve, tornerà alla vita cominciando a falciare tutto ciò che si muove.
Colori saturi supportati da una fotografia sporca ma impeccabile, Hardware, coi suoi interminabili scontri tra carne e acciaio, preannuncia le battaglie videoludiche combattute in rete dalle più recenti generazioni di nerd e, grazie anche ad un montaggio frenetico e una colonna sonora eclettica, sfrutta a dovere il risicatissimo budget per mostrare come si possa fare un film dissacrante con poche idee (neppure particolarmente originali) purché valide. Attenendosi pedissequamente alle regole del canone che in quegli anni stavano definendo i vari William Gibson e Bruce Sterling, la trama si regge infatti su un simbolismo non banale (il protagonista di nome Mosé, il codice alfanumerico del simil-terminator – che tra l’altro si chiama Mark 13 come un vangelo – che sommato da BAAL) e, alla maniera dei più classici b-movies, mira ad essere letta come una critica al potere. Personaggi fumettistici, dialoghi secchi e guizzanti che pencolano tra fantascienza e trash (a proposito, il tassista sembra Lemmy dei Motorhead!), Hardware merita ancora, a un ventennio di distanza, il posto di rilievo che occupa nella variegata cinematografia cyberpunk.
Stanley non ebbe vita facile dopo Hardware - che vinse il premio per i migliori effetti speciali al festival del cinema fantastico di Avoriaz, e il premio regia al Festival del cinema di Brussels e al Festival FantasPorto. Prima i numerosi problemi produttivi con il film Demoniaca e poi - in mezzo alcuni video dei Marillon - con L’isola del Dottor Moreau, nel 1993, con Marlon Brando, un film che gli avrebbe permesso certamente di fare un salto di carriera, ma probabilmente proprio a seguito di lamentele di Brando, venne licenziato e al suo posto venne chiamato John Frankenheimer.
2 commenti:
Ricordo una recensione di Kezich che notava quanto fosse caduto in basso Brando ormai disposto a tutto x i dindi. Tullio, con coerenza, anche nel momento di redigere il coccodrillo del divo scrisse che, a suo avviso, se non si considerano le prove memorabili di Fronte del Porto e di Giulio Cesare, Marlon fosse di molto meno produttivo del suo clone snello e bello in arte Paul Newman ( che nei primi anni di carriera si vide rallentato dal fatto di ricordare The Wild One ndr ).
Io posso solo dire che per anni mi sono pettinato e vestito come il bounty killer di Missouri
( l'unico portaborse di un sottosegretario di un partitino di portatori d'acqua con zazzera ossigenata e giacca a frange - diciamo che non ha giovato al mio leader e che non gliene faccio una colpa se ora scrive libri di cucina - scusami ancora Benedetta ) e che sto ultimando un romanzo intitolato Marlon Marillon che racconta di un riparatore di carillon che si imbatte nella Musica Definitiva ovvero il jingle della creazione e riscrive la realtà come fosse un un b-movie su un mafioso con un codice che si arruola ed è spedito nella versione fumettistica del Vietnam dove apre un albergo in cui si organizzano conventions di bikers. Ho provato ad inviare i files dei primi settanta capitoli ad editori che godono della mia stima, ma ho ricevuto solo commenti che temo dovrò un giorno stralciare dalla mia bio, sebbene sia per principio contrario alla censura. Pazienza.
Crepa: Marlon è per me assolutamente un must irragiungibile, al punto che considero l'arte della recitazione come un prima e un dopo Marlon (lui e il suo "metodo", lui e il suo "make-up fisiognomico") ma anche del bel Paul io non saprei parlarne male: anch'egli un grandissimo attore - in questo blog se ne è parlato tanto, a maggior ragione per il suo contributo alla cinematografia "southern")
PS per finire non considero L'isola di Moreau un brutto film, anche se Stanley ne aveva una concezione completamente diversa rispetto alla versione poi terminata da Frankenheimer)
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