Carriers (2009), scritto e diretto dai fratelli Àlex e David Pastor, catalani di Barcellona, appartiene al sempre fecondo genere post-apocalittico proponendone l'ennesima declinazione in cui - alla stregua del recente The Road - lo spettatore non è informato su cosa abbia scatenato l'immane catastrofe (in questo caso un contagio), gli basta sapere che i pochi scampati alla decimazione della razza umana avanzano lungo il racconto cercando solo, costi quel che costi, di sopravvivere. Nell'ipotesi di un mondo degenerato all'improvviso, quindi, l'unico modo per salvare la pelle risulta quello di accantonare ogni regola civile e cominciare a pensare come un animale selvatico. Meglio: come un predatore. Una prospettiva che non ci mette molto a diventare sacra per Brian (un aitante Chris Pine in fase ante-Star Trek), il giovane protagonista che a bordo di una delle tante macchine trovate lungo il cammino viaggia in fuga dall'epidemia sul confine tra Texas e Messico (splendidamente fotografato, va detto!) assieme al fratello Danny, la fidanzata Bobby e l'amica «particolare» Kate. La loro meta, un cadente alberghetto on the beach dove i fratelli trascorrevano felici vacanze adolescenziali, incarna la flebile, nonché vana, speranza di ritrovare la perduta normalità.
Il film, pur non proponendo di fatto alcunché di nuovo, è per certi versi eccezionale, mostrandoci come basti poco (quando si ha talento) a irretire verosimilmente il pub- blico per rivelarsi decisamente bello e appassionante in numerosi suoi momenti. Anzitutto per la capacità che i Pastor hanno di sfruttare con maestria il risicato budget a disposizione, non sprecandosi in un inutile tripudio di effetti speciali, con panoramiche di città infuocate e masse di contagiati belanti in claudicante avanzamento; no, il lavoro dei due cineasti spagnoli procede piuttosto per sottrazione filtrando con dedizione meticolosa l'essenza dei modelli di riferimento (l'australiano Interceptor sicuramente tra tutti), evitando di perdersi nel citazionismo più bieco e focalizzando sulla disponibilità di benzina da parte degli scampati il suo asse portante (al riguardo non c’è dubbio quanto sia azzeccato il titolo del film: «carriers» è infatti termine che può riferirsi tanto ai vettori del virus - gli esseri umani - quanto ai mezzi di trasporto che permettono la salvezza).
Nei suoi stringati 84 minuti di durata la pellicola, girata con indubbia competenza tecnica e prodotta in America due anni prima dell'uscita, inanella in maniera non banale bei momenti di tensione, mettendo in scena nel modo più cruento scontri che richiedono decisioni estreme sul piano degli affetti più cari (inutile accennare di più, lo spoiler è in agguato). Certo, qua e là taluni sviluppi potevano essere meglio acconciati (quando Pine gioca a golf in mezzo al nulla, per esempio, era un momento che magari avrebbe offerto spunti di riflessione notevole sulla caducità delle cose) ma Carriers è la riprova di come si possa ancora giocare con gli stereotipi, soprattutto nel cinema di genere, basta saperlo fare con la dovuta sobrietà, e la scelta di mostrare un'«apocalisse minimalista» (come la chiama Elvezio Sciallis sul La Tela Nera) anziché depauperare di mordente la storia la impreziosisce d'un mood tutto suo, che evita i luoghi comuni per raccontare la carne che viene consumata dal morbo, il dolore che si sostituisce alla coscienza e l'istinto che predomina sulle emozioni. Bello, notevole, da segnalare.
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