Trama semplice semplice: due professionisti della rapina (Alain Delon e Gian Maria Volonté) insieme a un ex-poliziotto disincantato e dedito all'alcolismo (Yves Montand), preparano meticolosamente un colpo, ma vengono braccati da un pugnace commissario di polizia (André Bourvil). Su questo lineare canovaccio il cineasta francese Jean-Pierre Melville, padre del polar cinematografico (ovvero il poliziesco europeo, convenzionalmente noto anche come noir), impronta la levigata, plumbea bellezza di Le cercle rouge (da noi uscito col titolo I senza nome - 1970), sua penultima pellicola e canto del cigno di un genere che proprio grazie al regista smise di essere considerato «minore» per affacciarsi con successo nelle fumose sale d'essay frequentate dagli intellettuali. Melville (1917-1973), il più americano dei registi francesi, era innamorato dei thriller e degli oscuri paesaggi urbani, e non era esente dal fascino della virilità di «quelli della mala». Autore capace di grande perizia tecnica, attinse voluttuosamente ad una mitologia gelida e atemporale, da «condottiero sperdutosi nel nostro secolo», secondo la definizione che ha dato di lui Jean Wagner. Realizzò film di grande, asciuttissima composizione strutturale, lungometraggi in grado di travalicare i confini del genere (meglio, in grado di manipolare superbamente i limiti del genere) toccando spesso punte virtuosistiche di tragedia minimalista: Bob le flambeur (1956), Lo spione (1962), Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide (1966), Frank Costello, faccia d’angelo (1967). Con I senza nome il suo piglio si fa - se possibile - ancora più freddo, documentaristico. I personaggi parlano poco, mai a sproposito (giova avere attori di gran classe) e la messa in scena è tersa, priva di orpelli. Praticamente: un congegno a orologeria che acchiappa lo spettatore e lo scaraventa con amarezza sino alla parola fine. Da brivido.
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