A causa anche di una distribuzione a dir poco miserabile sono stati davvero in pochi quelli che all'epoca dell'uscita poterono gustarsi al cinema Lupo Solitario, primo, robusto lungometraggio firmato da Sean Penn nel 1991 partendo da una celebre canzone di Bruce «The Boss» Springsteen: Highway Patrolman. Nonostante le buone intenzioni dell'attore (in quel periodo più noto per la sua relazione con Madonna che per lo spessore artistico delle sue performances) il film ha numerosi punti di cedimento, eppure rivisto oggi, oltre a confermare l'insulsaggine degli anni americani della «nostra» Valeria Golino, possiede dalla sua una forza e una visione che, alla luce del lavoro successivo dell'attore/cineasta, andrebbero rivalutate.
La pellicola s'impernia sulle vicende di Joe (David Morse), poliziotto che ritrova l'affezionato fratello Frankie (un ancora sconosciuto ma già incisivo Viggo Mortensen), reduce dal fronte in Vietnam e da un periodo in carcere, e del suo tentativo di farlo reintegrare nella società e nell'ambito familiare. Frankie accetta di unirsi in matrimonio con Dorothy (Patricia Arquette) da cui ha un bambino, ma la sua inquietudine finisce per acuirsi e la tragedia incombe sul finale. Lentissimo ma fluido, con bei paesaggi e un ottimo tappeto sonoro (c'è anche la celebre versione di Summertime by Janis Joplin), il film è esteticamente molto curato, con soluzioni stilistiche originali e mai troppo insistite. Il tema centrale, quello del disagio sociale d'un ribelle incapace di confrontarsi con una società in cui giusto e sbagliato spesso si diluiscono, è trattato in maniera intrigante: Frank non riesce a capire perché se Joe uccide un uomo, benché un delinquente e per legittima difesa, venga osannato come un eroe. A dirla tutta, neanche Joe accetta facilmente le conseguenze che ciò implica, tanto da cercare di convincersi di aver fatto il suo dovere e poi ammettere a sé stesso: «non mi sono creduto». E poi c'è lo sguardo aspro ma nostalgico (al limite del radicale, questo sì) sulla famiglia: «Là fuori c'è la famiglia, qui dentro c'è la pazzia» dice Joe al fratello, esprimendo un concetto molto americano (anche se, ironicamente, il protagonista del più acclamato film di Penn, Into the wild, compie il suo viaggio nella vita allontanandosi dalla famiglia). E il regista rimarca quest'ottica anche con la citazione finale di Tagore «Ogni bambino che nasce ci ricorda che Dio non è ancora stanco degli uomini». Efficace il cast (Charles Bronson è un inedito padre dei protagonisti, la già citata Valeria Golino fa la moglie messicana di Joe, Dennis Hopper è il barista) e poi Mortensen, davvero eccellente nel confezionare un personaggio teso e indomito: «C’era uno che mi disturbava e forse ero io», dice, e si concede ad un nudo frontale. Il titolo originale (indian runner) fa riferimento ai corrieri pellerossa che un tempo traversavano il paese - liberi e incuranti dei pericoli - e con i quali Frank si identifica. Da riscoprire.
La pellicola s'impernia sulle vicende di Joe (David Morse), poliziotto che ritrova l'affezionato fratello Frankie (un ancora sconosciuto ma già incisivo Viggo Mortensen), reduce dal fronte in Vietnam e da un periodo in carcere, e del suo tentativo di farlo reintegrare nella società e nell'ambito familiare. Frankie accetta di unirsi in matrimonio con Dorothy (Patricia Arquette) da cui ha un bambino, ma la sua inquietudine finisce per acuirsi e la tragedia incombe sul finale. Lentissimo ma fluido, con bei paesaggi e un ottimo tappeto sonoro (c'è anche la celebre versione di Summertime by Janis Joplin), il film è esteticamente molto curato, con soluzioni stilistiche originali e mai troppo insistite. Il tema centrale, quello del disagio sociale d'un ribelle incapace di confrontarsi con una società in cui giusto e sbagliato spesso si diluiscono, è trattato in maniera intrigante: Frank non riesce a capire perché se Joe uccide un uomo, benché un delinquente e per legittima difesa, venga osannato come un eroe. A dirla tutta, neanche Joe accetta facilmente le conseguenze che ciò implica, tanto da cercare di convincersi di aver fatto il suo dovere e poi ammettere a sé stesso: «non mi sono creduto». E poi c'è lo sguardo aspro ma nostalgico (al limite del radicale, questo sì) sulla famiglia: «Là fuori c'è la famiglia, qui dentro c'è la pazzia» dice Joe al fratello, esprimendo un concetto molto americano (anche se, ironicamente, il protagonista del più acclamato film di Penn, Into the wild, compie il suo viaggio nella vita allontanandosi dalla famiglia). E il regista rimarca quest'ottica anche con la citazione finale di Tagore «Ogni bambino che nasce ci ricorda che Dio non è ancora stanco degli uomini». Efficace il cast (Charles Bronson è un inedito padre dei protagonisti, la già citata Valeria Golino fa la moglie messicana di Joe, Dennis Hopper è il barista) e poi Mortensen, davvero eccellente nel confezionare un personaggio teso e indomito: «C’era uno che mi disturbava e forse ero io», dice, e si concede ad un nudo frontale. Il titolo originale (indian runner) fa riferimento ai corrieri pellerossa che un tempo traversavano il paese - liberi e incuranti dei pericoli - e con i quali Frank si identifica. Da riscoprire.
Nessun commento:
Posta un commento