lunedì 22 giugno 2015

il trio Mcdonald...

in una delle mie scorribande nelle librerie di Siena mi sono ritrovato fra le mani Non piangete per chi ha ucciso di Ross Macdonald pubblicato da Hobby and Work, 2006. Ho cominciato a sfogliarlo quando, alzando la testa per una pseudo riflessione sull’autore, sono stato colpito da un altro Macdonald che mi faceva l’occhiolino più in alto da una smagliante copertina rossa. Si trattava di Philip Macdonald autore, in questo caso, di La strana fine di Mr. Benedik della Polillo editore. Poi un improvviso lampo mi ha riportato alla mente che avevo conosciuto, forse, nei tempi “antichi”, un altro autore con questo non del tutto originale cognome. Un certo John D. Macdonald. Ed ecco formato il trio Macdonald (mi ricorda il trio Lescano).
A casa ho cercato di mettere a posto le cose per non entrare in crisi cognitiva. Sono partito dal più vecchio:  Philip Macdonald (1899-1981), uno dei primi inglesi a trasferirsi ad Hollywood, scrittore di sceneggiature per il film della serie Mr. Moto e Charlie Chan. Il suo primo successo arriva con The rasp (Campana a morto) nel 1925 dove compare il colonnello militare Anthony Gethryrn, che gli assomiglia (anche l’autore ebbe una discreta esperienza militare), protagonista di una serie di romanzi. In genere il suo è il classico giallo di competizione con il lettore che ricorda quello di Ellery Queen. E si cimenta anche con il classico rompicapo della camera chiusa (vedi The Choice). Spettacolare I nove volti dell’assassino da cui fu tratto il film I cinque volti dell’assassino forse perché nove erano decisamente troppi. Per non venire a noia al pubblico dei suoi lettori usa diversi pseudonimi come Oliver Fleming, Anthony Lawless, Martin Porlock. È entrato nel guinness dei libri migliori selezionati da John Dickson Carr con La morte è impazzita. In La strana fine di Mr. Benedik tra gli altri, c’è Mr. Matsch, crudele e misterioso personaggio che tratta a pesci in faccia tutti quelli con cui ha a che fare (tenetelo d’occhio!) e la deliziosa Petronella Rickforth. Il libro ebbe un tale successo che fu portato sullo schermo nel 1931 dal regista inglese Michael Powell. Il quale Powell affermava che Philip «Era il migliore scrittore di gialli di quegli anni e, per quanto mi riguarda, uno dei migliori ancora oggi».
• Ross MacDonald, pseudonimo di Kenneth Millar (1915-1983), sembra essere nato per suscitare diatribe. Una l’ebbe con John D. MacDonald che lo aveva criticato per l’uso dello pseudonimo John Ross Macdonald negli anni cinquanta e perfino per il titolo del suo ultimo libro Lew Archer e il brivido blu che si rifaceva alla serie di Mc Gee caratterizzato anch’esso dalla presenza di un titolo “colorato” (Su The blu Hammer qui da Luca Conti).
Anche Chandler, sempre negli anni cinquanta, lo aveva attaccato di brutto. In una lettera a James Sandoe del 14 maggio del 1959 massacra Bersaglio mobile, il cui stile era troppo ambizioso e troppo letterario. (A dir la verità Chandler ce l’aveva soprattutto con James Cain che scriveva, secondo lui, sconciamente di cose sconce. In una lettera al solito Sandoe, del 26 gennaio 1944, scrive «Mi ha sempre irritato essere paragonato a Cain. Il mio editore pensava fosse un’idea astuta perché lui aveva avuto un gran successo con The Postman Always Rings Twice, ma qualunque cosa io abbia o mi manchi come scrittore, non sono per niente come Cain. Cain è uno scrittore di quel tipo di faux naif che disprezzo in modo particolare»).
Questo Ross Macdonald ha colpito l’attenzione di altri scrittori-critici come Manchette che, invece, lo rivaluta. In Le ombre inquiete, pubblicato da Cargo edizioni nel 2006, dice «Ho cambiato opinione riguardo a Ross Macdonald. Lo lasciavo intendere la volta scorsa. Un certo intellettualismo e la piatta fedeltà al classicismo chandleriano, in particolare alla sua figura stilistica più debole - la comparazione immaginosa -, infine la monotonia dell’intreccio, risultano di primo acchito scoraggianti. Alla fin fine, però, è proprio questa monotonia che affascina - in quanto ripetizione. La ripetizione è la chiave di Ross Macdonald…». Comunque sia, Ross Macdonald è l’ideatore del famoso detective Lew Archer che fa la sua comparsa nel 1949 in The moving target diventato un film nel 1966 con Paul Newman (Harper).
Sulle stesse strade di Santa Teresa (oggi Santa Barbara) lavora Kinsey Millhone, un'investigatrice privata nata dalla penna di Sue Graft. Piccola, scura, si tinge i capelli in maniera vistosa, vive in un garage e si sposta su una decrepita Wolgswagen. Vita difficile, perde i genitori in un incidente stradale, abita con una zia. Entra come investigatrice nella California Fidelity ma poi si mette in proprio. Due matrimoni allo sbando. Temperamento forte, ribelle, indipendente. Da seguire con attenzione. A proposito dello stile del Nostro ecco alcuni spunti che ho ricavato dalla lettura del citato Non piangete per chi ha ucciso definito dal noto critico Anthony Boucher «Il miglior romanzo nella tradizione della “scuola dei duri” che io abbia mai letto dopo Addio mio amata e Il falcone maltese». La signora che ingaggia Lew Archer per ritrovare la nipote Galley Lawrence «Era alta, sulla cinquantina, con occhi scuri e preoccupati in un viso lungo e preoccupato». Parla «con una voce che di sicuro era la migliore delle sue caratteristiche». La visione della stanza gli dà la sensazione di essere piombato nel passato e allora «Afferrai il presente per la coda e lo feci entrare a forza in quella stanza». Per dire grassa «Se i fianchi della signora Tarantine fossero stati di qualche centimetro più larghi sarebbe stata costretta a passare per traverso». Tocchi di un brutale realismo «Le vene varicose si delineavano sulle sue gambe, sotto le calze, come grassi vermi bluastri». Paragoni ed espressioni imprevedibili «La carnagione era fresca e giovanile, ma gli occhi scuri e sporgenti parevano appena usciti da una pozzanghera e appesi su quella faccia ad asciugare», «Le banconote sembrano prendere qualcosa dal modo di fare di chi le maneggia e quella mi si accartocciò in mano come un grosso verme verdognolo». A proposito di un farabutto sanguinario «Gli occhi sporgenti e le mascelle ruminanti lo facevano assomigliare a un gigantesco criceto travestito da uomo». Anche la natura non la scampa «La notte stava morendo lentamente, dissanguandosi in un’alba densa di parole». Oppure «Quando uscii dalla macchina la notte mi sovrastò come un albero con i rami fioriti di stelle». E così via. Può piacere o non piacere…
La bellezza di questo e di altri libri di Ross Macdonald (in generale) sta, non solo nella trama ma, soprattutto, nello stile. Inconfondibilmente suo. Ritmo serrato, prosa scintillante ricca di metafore che scoppiano all’improvviso, un'ironia ora leggera, ora ferocemente sarcastica, che pervade il tessuto narrativo. Una capacità istintiva di far vivere con pochi tocchi una folla o un paesaggio che sia quello della natura o quello della città. Un inno alla gioia dello scrivere, tanto che restiamo quasi in ansiosa attesa di quali altre gemme ci potrà regalare lo scrittore. E se qualche volta eccede in esuberanza, in maestria pirotecnica, siamo pronti a perdonarlo.
E poi c’è questo Lew Archer «la terza incarnazione del Privato gentiluomo» come lo ha definito Oreste del Buono dopo Sam Spade e Philip Marlowe che ci prende, ci affascina. Il suo disincanto, l'ostentata amarezza e una buona dose di cinismo non gli impediscono d'essere romantico e generoso. Si aggiunga che, al pari di Marlowe, è onesto e scrupoloso per ciò che riguarda gli onorari e non è disposto neppure a chiudere un occhio, per diecimila dollari, su un caso che non lo riguarda direttamente (in un romanzo li strappa in mille pezzi). Così ne busca spesso dai cattivoni veri, incassa cazzotti (però li rifila pure) e non può nemmeno consolarsi con il whisky che non beve, né con il tabacco, per non dire di venere (quando le donne lo insidiano fa finta di niente, se non ricordo male). Va aggiunto che l'onestà e l'integrità professionale impediscono al bel Lew d'accettare inviti a pranzo, da facoltosi clienti e da formose clientesse, in ristoranti a quattro stelle. Né accetta argenteria ed orologi di marca e perfino un ramo di rarissime orchidee che una vedova gli aveva, incautamente, fatto recapitare da un fattorino della Casa Bianca. Corretto, dunque, e provvisto di senso etico. In Il ghigno d’avorio, Hobby and Work 2007, «Sono dalla parte della giustizia, quando mi riesce di ottenerla. E quando non mi riesce prendo le parti dei più deboli e derelitti». (da baciargli le mani e portarlo direttamente ai giorni nostri).
• John D. MacDonald (1916-1986), è famoso per la serie di Travis Mc Gee, un veterano della guerra di Corea, ex giocatore di football americano che vive recuperando beni sommersi. Ho trovato un giudizio del solito Manchette. «Nel suo piccolo, soprattutto grazie alla serie di Travis McGee, è uno scrittore celebre e conosciuto in tutto il mondo. Il che non c’impedirà di considerarlo un artigiano. Perché, a dispetto delle variazioni infinite, non smette d’imitare stilemi ben noti, e poi è imitando stilemi ben noti che ogni tanto firma un capolavoro». Poi… poi è venuta una specie di luce, un lampo nella memoria e mi è apparsa una scena indimenticabile, la resa dei conti in una palude della Florida tra un criminale uscito di galera e l’avvocato che lo aveva fatto condannare. Anni sessanta, Il promontorio della paura con Gregory Peck e Robert Mitchum, tratto da The Executioners del nostro John.
A dir la verità i primi gialli della scuola dei duri a stelle e strisce che ebbi tra le mani furono quelli di Brett Halliday (pseudonimo di Davis Dresser) con il gigantesco rossiccio Michael Shayne che beveva Martell come una spugna e di Mickey Spillane con Mike Hammer che “martellava” di brutto. Non per oculata scelta personale ma per puro caso. Non avendo in tasca una lira che fosse una (desolata costante di tutta la mia “beata” gioventù) andavo talvolta dal giornalaio del mio paese Staggia Senese che teneva, oltre i giornali, anche riviste e gialli di varia natura. E… e sapete già il seguito perché raccontato più volte. Ancora alla prossima con il solito condizionale.
(articolo by Fabio «Boss» Lotti)

15 commenti:

CREPASCOLO ha detto...

Se leggi i romanzi di Ross McD e poi qualcuno a bruciapelo ti chiede chi vedresti nei panni di Lew al cine, probabilmente Paul Newman non sarebbe il primo nome ad attraversarti la zucca. A meno che tu sia uno di quei fans che considera il bel Paul perfetto x qualsiasi ruolo. Ricordo una battuta che girava al tempo della Febbre del Sabato Sera che stigmatizzava quanto fosse popolare allora il bel John: il film racconta di una anziana ottuagenaria nera ? chiamiamo Travolta !
Da bambino, in quelle estati in cui facevo incetta di GM nice price, mi piaceva Lew che alternavo a Perry, Nero, Gideon ed altri. Oggi, prendendo in prestito un motto del mio amico ed ex allievo Woody Allen , temo che la lettura delle indagini di Archer abbia sostituito , in certi stati americani, la pena di morte.
« La notte stava morendo lentamente, dissanguandosi in un’alba densa di parole». « Afferrai il presente per la coda e lo feci entrare a forza in quella stanza». Nemmeno Carmen Consoli dopo una notte di bisboccia nei peggiori bar di Caracas. Anche se ammetto che frasi siffatte abbiano un qualche bislacco fascino crepascolare.
John Travolta vola sopra una di quegli stati americani dove i piloti di Cinelandia ogni tanto sfrittellano i loro velivoli e fa ciao ciao con la manina a Harrison Ford mentre si perde nei suoi pensieri: deve decidere se accettare di interpretare una cantautrice che dopo il crepuscolo spara alla luna cercando di uccidere la notte e, x errore, abbatte un biplano sperimentale di un inventore dilettante che, furente x aver perso tempo e denaro nel progetto, si vendica attraverso un presente costituito da un piccolo puma che salta fuori dalla scatola e resta ipnotizzato dalle rime della singer. Secondo l'agente di Travolta, si tratta del Birdman del 2016. Forse.

sartoris ha detto...

@Crepa: posso ammettere di essere uno di quelli che vedrebbe Newman perfetto in ogni ruolo? E sì, anche se probabilmente il Lew Harcher che aveva in testa l'autore era un altro (ma come negare che al cinema Newman abbia funzionato alla grande in quei panni? Adoro i due film con lui protagonista)

CREPASCOLO ha detto...

Probabilmente ne abbiamo già parlato o lo sai già: Archer diventa Harper al cine perchè Newman pensava che l'acca gli portasse fortuna ( Hustler, Hud ).
Il " mio " Archer è Robert Ryan.

sartoris ha detto...

Sì ne abbiamo parlato. Ti quoto su Rob Ryan, grande attore confinato a ruoli di perenne - perfetto - caratterista (che tra l'altro mi ha sempre ricordato un mio zio buonanima:-))))

Anonimo ha detto...

Chi rischia può cadere nell'astruso e perfino nel ridicolo. Ma chi non rischia spesso rimane...rimane lì.
Sempre un grazie per le belle icone e per Crepa.
Fabio

CREPASCOLO ha detto...

Concordo.
A dirla tutta, faccio tanto il saputello, ma quella cosa del presente da imprigionare nella stanza ( Gino Paoli ? ) non è tanto male e temo che nei miei gg di liceo sia andato molto oltre e so per certo che quando la mia ex prof di Lettere Moderne ed Altre Spigolature è giù di corda al pensiero del preside-dominus-ed-altre-facezie riprende i miei vecchi temi e ritorna a sorridere all'idea che un tizio capace di uscirsene con cose come " Ho catturato l'essenza del momento tra il pollice del presente e l'indice del futuro che non sarebbe mai stato altro che un'ipotesi scritta sulla sabbia della spiaggia in cui perdersi tra lo sciabordìo delle onde e lo zirlìo sommesso del passato che cambia con la musica dei pensieri di quando non si hanno pensieri " possa oggi essere uno degli spin doctors del rinnovamento che tutti auspichiamo. So goes life.

CREPASCOLO ha detto...

" zirlìo sommesso " da un racconto di Marotta.

CREPASCOLO ha detto...

Da qualche parte Ross McD ha scritto che le generazioni sono tribù accampate su isole lontane. O qualcosa di simile. Uno dei suoi romanzi con conflitti familiari ( okay , lo sono quasi tutti ). Ha anticipato tutta quella urban fantasy con vecchi contro giovani. Direi anche La Fuga di Logan. E Pasolini che spiegava come le guerre fossero dichiarate dai padri x stecchire i giovani. E le prime interviste di Mick Jagger. Bravo.

Anonimo ha detto...

Ricordi, ricordi... Alle elementari ero un poeta che non andava tanto per il sottile. Poesia "Il sole".
O sole
tu che sei il re del mondo
e lo rendi sì giocondo
dacci un po' del tuo calore
perché faccia risvegliare
fiori, frutti, sorrisi (qui momento di impasse)
e anche un po' di narcisi. (già che ci siamo)
Sento ancora ridere la maestra Elvira.
Fabio

CREPASCOLO ha detto...

A cui pare rispondere Flavia Fortunato qualche anno fa con " Ma dove vai tu sole / porta a noi la tua forza di dire sì ".

Il sole che fa ridere l'umanità e la signora Elvira evoca naturalmente il sole che ride dei Verdi e quel tizio in cielo con cui parla spesso La Pimpa.

Anonimo ha detto...

Sulla Pimpa e Peppa Pig so tutto.
Fabio

Anonimo ha detto...


Ieri ho rivisto il mio professore di filosofia dopo tanti anni. Alle superiori non sopportavo (non capivo) i lunghi discorsi sofistici di alcuni insegnanti. Anche bravi, tra cui il prof. il suddetto, il quale, essendo di formazione marxista, ci faceva, studiare , naturalmente, le opere di Benedetto Croce (li mortacci…). Tra l’altro allora era un signore distinto giacca e cravatta che faceva innamorare le ragazze tra le quali anche la mia compagna di banco di cui ero innamorato non ricambiato (porca vacca). Per cui alla fine di tutto il discorso filosofico ero solito saltare su con un provocatorio “E allora?”, sia per fargli pagare in qualche modo il suo stupido fascino maschile, sia per invitarlo ad una sintesi più adatta al mio semplice cervello. Le prime volte ho continuato la lezione nel corridoio della scuola ma in seguito il prof. deve avere riflettuto su qualche bontà della mia domanda e alla fine del discorso concedeva sempre qualche minuto alla sintesi, recando un discreto sollievo anche ad altri semplici cervelli.
Ieri l’ho rivisto. Non l’ho riconosciuto subito. Era quasi piegato in due su un bastone e sorretto da una badante. Mi è venuta la voglia di corrergli incontro e gridare “Professore! Professore!”. Ma non ce l’ho fatta. Mi sono limitato a seguirlo con lo sguardo mentre arrancava tremolante per la strada. Il mio Professore, Il mio grande Professore. Così non si fa.
Fabio
Passamela come ricordo, Omar.

sartoris ha detto...

@Fabio nei commenti potete fare un po' come c... volete :-)

Anonimo ha detto...

Sì, però, non avrei dovuto scriverla. Ho sbagliato. Mi è scappata come un piccolo sfogo in un blog istintivamente amico.
Fabio

sartoris ha detto...

@Fabio tranquillo non mi sembra un racconto negativo, anzi contiene una sua amara poesia :-)