venerdì 8 giugno 2012

Donne facili, uomini difficili

Noir c’est noir, il n’y a plus d’histoire (Johnny Hallyday)

(prendetevi il vostro tempo ma leggetevi questa superlativa disamina del noir francese a firma di Dario PM Geraci, scrittore, saggista, gestore del sito del Giallo Mondadori nonché frequentatore di questo spazio: ne vale davvero la pena! - il pezzo è uscito per Musicajazz ed è fruibile anche qui)
Nel film Triplo gioco di Neil Jordan un crepuscolare Nick Nolte, al limite delle proprie risorse psicofisiche, si trascina in una storia di furti, alcool e tradimenti. La storia sa di già visto - o meglio: già letto in decine di romanzi - ma la pellicola emana un mood fumoso e disperato. È il remake di un classico del polar: Bob il giocatore.
È del tutto impossibile guardare al polar - commistione tra i termini policiére e noir - da cinici scrutatori. Non è il modo corretto di affrontare un filone. Il polar è quel sentimento, molto simile allo spleen descritto da Baudelaire, che si respira quando si ha la netta sensazione di essere in fuga da qualcosa o da qualcuno e davanti ai propri occhi non si vede nient’altro che un muro (o una bottiglia di whisky).
La galleria di volti di questo filone è irresistibile. Oltre al naso rotto e alla faccia da impunito di Jean-Paul Belmondo, esiste un altro mito, un James Dean dal ghigno diabolico e dalla mira infallibile: Alain Delon.
Pochi volti come il suo hanno lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema: affascinante, guascone quanto basta, glaciale all’occorrenza, elegante. Se Julio Iglesias avesse pensato a qualcuno componendo Sono un pirata, sono un signore, senza dubbio l’avrebbe fatto pensando a Delon. Ma cos’è essenzialmente il polar? Si pensi alla Marsiglia dei duri, della corruzione, di quel mare nero e imperturbabile che decine di volte appare nelle pellicole del genere, i cui tratti sono stati delineati, seppur flebilmente già nel 1942 da L’assassino abita al 21 di Georges Clouzot; anche il suo Legittima difesa (1947), pur strizzando l’occhio alle produzioni statunitensi, è sicuramente un antesignano del genere. Di certo, il polar deve molto alla letteratura poliziesca statunitense ed è innegabile che molti registi appartenuti al genere si siano cibati per anni di pane e Série noire ma legare a questo dato il successo del fenomeno sarebbe oltremodo errato. Mentre nel noir, e soprattutto nell’hard-boiled statunitense, abbiamo un protagonista altamente tipizzato e di stampo cavalleresco, nel polar - che pur nasce in Francia, patria della chanson de geste - nessuno dei personaggi ha una connotazione chiara: sono individui borderline, dietro ai quali non c’è la volontà chiara di schierarsi in maniera stabile dall’una o dall’altra sponda; vengono spinti dalla corrente, dalle situazioni, sono vittime di una sorta di anomia nell’accezione teorizzata da Durkheim.
Parallelamente al cinema poliziesco, la letteratura francese ha avuto indubbiamente un forte influsso sull’approccio polar. Sebbene, infatti, sia quasi automatico legare il nome di Georges Simenon alla letteratura di genere, Albert Simonin, Auguste Le Breton e il più tardo Jean-Patrick Manchette sono le chiavi per identificare gli stilemi principali del filone. Certo, opere di Simenon come Il cargo, Passeggero clandestino o Il segretario sarebbero ascrivibili al genere ma romanzi come Grisbì, trasposto nel 1954 da Jacques Becker, o Rififi, portato sullo schermo nel 1955 da Jules Dassin, sono senza dubbio le pietre angolari che permettono la nascita dell’intero filone.
Sul finire degli anni Cinquanta la Francia è attraversata dalla Nouvelle vague, movimento sulla carta lontanissimo dal noir ma che grazie alla sensibilità dei suoi interpreti riesce a fondersi con esso alla perfezione, toccando vette altissime con film quali Bande à part (1964) di Jean Luc Godard, A doppia mandata (1959) di Claude Chabrol e, su tutti, Fino all’ultimo respiro (1960), sempre di Godard.
Il polar esce più maturo dalla parentesi della Nouvelle vague. I suoi caratteri sono ancor più sottili, certe sbavature e americanismi si sono smussati e con Delitto in pieno sole (1960) di René Clément - tratto da un romanzo di Patricia Highsmith - la crescita è tangibile. A livello attoriale certe sfumature sono curate nei minimi dettagli; i registi prestano attenzione alla scenografia come se fosse parte del cast. Alla stregua del realismo statunitense, la natura circostante abbraccia e a volte inghiotte i personaggi che la popolano. Il 1959 è senza dubbio l’anno di svolta del genere, con l’irruzione del regista che più di tutti l’ha influenzato: Jean-Pierre Melville. Scottato dall’ esordio nel lungometraggio con Il silenzio del mare (1949), film drammatico-esistenzialista, Melville propone nel ’59 una sorta di prova d’orchestra. Amante del noir statunitense, ambienta Le jene del quarto potere a Manhattan, confezionando un tipico esempio di instant movie sicuramente non al livello della sua successiva cinematografia. Subito dopo, Claude Sautet si affaccia al genere con quello che molti definiscono il suo capolavoro: Asfalto che scotta (1960).
Gli anni Sessanta sono quelli della consacrazione definitiva del genere. Il pubblico, prima restio, viene conquistato definitivamente non solo dalle trame ma anche dal fascino irresistibile degli interpreti. Lo spione (1962) vede Serge Reggiani e Jean-Paul Belmondo nelle vesti di due eroi shakespeariani, perdenti fin dal principio, disperati, senza redenzione: due emblemi del polar. L’incontro di Melville con José Giovanni - sceneggiatore, regista e profondo conoscitore del milieu - porta a Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide (1966), stralcio di vita criminale con protagonista Lino Ventura, uno dei volti più rappresentativi del genere.
Frank Costello faccia d’angelo ovvero Le samourai (1967) ha un eccezionale Alain Delon nelle vesti di un killer tradito dal suo giro e in cerca di vendetta. Il Delon diretto da Melville segna un passaggio importante. L’attore assurgerà infatti, al pari di Belmondo, a icona del polar, partecipando alla maggior parte delle produzioni dell’epoca.
Contrariamente a ciò che avviene in Italia con Maurizio Merli, Luc Merenda e Franco Gasparri, il divismo in Francia non cannibalizza la figura dell’attore, che riesce a mantenere viva una propria indipendenza dal personaggio. Delon e Belmondo, infatti, vengono ricordati ancora come attori tout court, non come semplici interpreti di un fenomeno.
Ultimo domicilio conosciuto di José Giovanni (1970), Horror: l’assassino ha le ore contate (1968) di Boisset, L’uomo venuto dalla pioggia di Clément (1970) e Il clan dei siciliani di Henri Verneuil (1969) sono le pellicole che meritano attenzione e che riescono a elevarsi rispetto all’ormai incessante produzione di fine anni Sessanta. Meritevole di una citazione a parte, La piscina di Jacques Deray (1969), commedia erotico-noir con un Delon mattatore assoluto tra Romy Schneider e Jane Birkin.
Gli anni Settanta si aprono idealmente con uno dei film più celebri del genere, I senza nome. Delon, Yves Montand e un formidabile Gian Maria Volonté sono i protagonisti di una serrata caccia all’uomo in pieno stille melvilliano. Diverso dai lavori precedenti del regista è Notte sulla città (1972), in cui l’ormai feticcio Delon veste i panni di un malinconico commissario di polizia. È l’ultimo film di Melville, che scompare nel 1973.
Fisiognomicamente parlando, gli interpreti del polar hanno più di un tratto in comune. Se da un lato abbiamo il volto segnato e dai lineamenti vagamente tumefatti di Belmondo, dall’altro c’è un uomo bello in senso classico - Delon - che riesce, a seconda del ruolo interpretato, a celare inconfessabili segreti, passati torbidi, futuri incerti. Importantissimi poi tutti i caratteristi del filone: maschere dai lineamenti particolari, scelte curate nei minimi dettagli dai registi. A fare da contorno al tutto abbiamo la cura per il vestiario - finto trasandato, bohémien, al limite del dandy in alcuni casi - e le musiche, saggiamente bilanciate tra jazz, temi sincopati e un uso smodato di armoniche e fisarmoniche, tipiche di alcune ambientazioni del luogo.
La morte di Melville non chiude il filone: anzi, una grandinata di titoli è pronta a sgomitare per un posto nell’olimpo del cinema. L’uomo venuto da Chicago (1970), Il cadavere del mio nemico (1976) e Il fascino del delitto (1979, da un romanzo di Jim Thompson) incorniciano gli anni Settanta, periodo nel quale il polar risente fortemente dei fermenti politici contemporanei e la commistione dei generi (poliziesco e politico) la fa da padrona. Tra le pellicole da ricordare anche Borsalino (1970) che vede spalla a spalla i due giganti Delon e Belmondo, Flic Story (1975) e Due contro la città (1973) con il duo Delon-Gabin.
Di pellicola in pellicola si arriva agli anni Ottanta, periodo di magra per il cinema di genere; particolarmente in Italia, dove le televisioni private affossano i pochi artigiani rimasti in attività, ma anche negli Stati Uniti, dove tra alti e bassi il noir non sa più offrire pellicole brillanti come nell’epoca d’oro.
La Francia continua malgrado tutto a conservare uno standard di buona qualità, pescando a piene mani dalla scuola del noir statunitense. Nel 1981 escono Guardato a vista, Per la pelle di un poliziotto e Colpo di spugna (dal romanzo Pop. 1280 di Jim Thompson); nel 1983 Lo specchio del desiderio (da un libro di David Goodis) ha per protagonista Gerard Depardieu, nuovo volto (spigoloso e burbero) del polar dopo Codice d’onore di Alain Corneau (1981), dove si muoveva agilmente accompagnato da Montand e da Catherine Deneuve, la dark lady del filone (con la quale appare nello stesso anno anche nella Signora della porta accanto di Truffaut).
Al termine degli anni Ottanta sembra finire anche il fenomeno del polar: il pubblico non è più attratto come un tempo e i grandi maestri sono concentrati su altri generi. Pian piano tutti abbandonano la nave che affonda; e pellicole come Il buio nella mente (1995) non bastano a ravvivare l’interesse ormai sopito. Ma, a seguito di un lunghissimo periodo di silenzio durato più di vent’anni, un ex commissario di polizia, Olivier Marchal, dopo aver esordito due anni prima con la pellicola Gangsters regala nel 2004 un noir di rara bellezza, 36, interpretato dall’indomito Depardieu e da Daniel Auteil, e capace di rinvigorire un genere dato ormai per morto, mescolando sapientemente la lezione del cinema d’azione statunitense con la tradizione polar. Il risultato è di grande fascino e rilancia il filone in Francia e all’estero.
In Asia, registi come Johnnie To riscoprono antiche passioni e rielaborano il cinema dei grandi del passato: Vendicami (2009), con Johnny Hallyday, ne è un esempio; in Europa, sulla scia del successo ottenuto da Marchal (che replicherà con L’ultima missione nel 2008), altri registi firmano piccoli capolavori come il belga Truands (2007) o L’immortale (2010) di Richard Berry.

Il caso Truffaut
François Truffaut - genio assoluto della regia, scrittore di prim’ordine e profondo conoscitore del cinema statunitense e soprattutto di quello di Alfred Hitchcock - è un raro caso di equivoco critico. Benché lo si tenda a definire un autore con la A maiuscola, e qualunque critico si ribelli al solo pensiero di definirlo regista di genere, occorre riflettere brevemente ma oggettivamente sulla sua filmografia. Osservando il filone del polar nella sua interezza è infatti impossibile non inserirvi un numero cospicuo di sue pellicole. Prendiamo Tirate sul pianista del 1960 (tratto dal romanzo Sparate sul pianista di David Goodis) o Finalmente domenica dell’83 (dal romanzo omonimo di Charles Williams) o ancora La sposa in nero del 1968 e La mia droga si chiama Julie del 1969 (entrambi da libri di Cornell Woolrich).
Come pochi altri, Truffaut ha saputo reinterpretare, senza stravolgerne l’essenza originale, non tanto le storie narrate dagli autori ma il loro stato d’animo e la loro malinconia. Diceva: «Ogni volta che mi sono avvicinato a uno scrittore di noir sono rimasto colpito dalla sua modestia e professionalità ma anche dalla sua tristezza». La tristezza, per l’appunto, la malinconia della vita, la solitudine più profonda e struggente, quella che preferiamo vedere sullo schermo dimenticandoci che spesso ci è seduta accanto. A differenza di altri cineasti dichiaratamente appartenenti al filone, Truffaut ha sempre posto la tristezza in primo piano, lasciando la vicenda ai margini.
Una glorificazione della sconfitta, una personificazione dell’estraneità.
Questa è l’essenza del noir.
Dario PM Geraci

18 commenti:

Anonimo ha detto...

Grande, infinito e incommensurabile Darione Geracione! (iperbole affettuosa)
Quando ho scritto che qui si rispettava la parola mica dicevo fesserie.Se poi ci si infila anche un certo contenuto allora...
Fabio

sartoris ha detto...

@Fabio, sapevo avresti gradito :-)

Silvia ha detto...

Emozionante.
Questa cavalcata straordinaria tra libri e cinema mi ha commosso. Grazie Dario, grazie Omar.

Anonimo ha detto...

Grazie a Omar per l'ospitalità e a Fabio e Silvia per gli apprezzamenti. Questo era grande cinema, oggi non ci resta che ricordare i bei tempi andati. Salvo rare eccezioni.

Dpmg

Fabrizio ha detto...

Bellissimo pezzo. Ma permettetemi alcune considerazioni riguardo al seguente passaggio: "Contrariamente a ciò che avviene in Italia con Maurizio Merli, Luc Merenda e Franco Gasparri, il divismo in Francia non cannibalizza la figura dell’attore, che riesce a mantenere viva una propria indipendenza dal personaggio.Delon e Belmondo, infatti, vengono ricordati ancora come attori tout court, non come semplici interpreti di un fenomeno"
Non credo sia possibile paragonare Delon e Belmondo con i vari Merli, Merenda ecc... per diversi motivi.
Il polar è ovviamente cinema di genere, ma trattato da mani sapienti, che fornivano al personaggio uno spessore psicologico che nel poliz(iott)esco italiano (campo in cui agivano i Merli e i Merenda) è quasi del tutto assente, salvo rarissime eccezioni. Il polar di Godard o Melville può invece essere rapportato al cinema di Vancini (La banda Casaroli 1962)e a quello di Lizzani (Banditi a Milano 1968)ideale proseguimento di quel neoralismo nero nato con Lattuada (Senza pietà 1948)e Ferroni (Tombolo paradiso nero 1947). Ecco allora che i Delon e i Belmondo diventano i nostrani Volontè o Salvatori, che al pari di Delon/Belmondo "vengono ricordati ancora come attori tout court, non come semplici interpreti di un fenomeno"
Inoltre non sottovaluterei il fatto che al contrario della Francia, il noir (al cinema) italiano, a causa del regime fascista, ha visto la luce solo nel dopoguerra, prima quel poco che si è potuto leggere lo si deve proprio ai Gialli Mondadori che comunque doveva sottostare a precise limitazioni: l'assassino non doveva essere italiano; la giustizia trionfava sempre.
I vari Merli, Merenda e soprattutto Gasparri NON appartengono a quel cinema di genere plasmato però da grandi autori, ma a quello che in Italia conosciamo come filone, cioè un cinema popolare a basso costo firmato da artigiani con nessuna velleità autoriale che sfrutta il successo dei film di Petri e Rosi. Non è poi un caso che lo stesso Merli arriva al cinema come "sosia" a buon mercato del più costoso (e bravo)Franco Nero. Ne consegue che i Merli ecc..sono figli di un cinema d'imitazione, che in nessuna maniera può essere rapportato alla nobile tradizione polar, ma per esempio, e con qualche forzatura a prodotti francesi come Peur sur la ville con Belmondo e diretto da Verneuil nel 1975.

sartoris ha detto...

@Fabrizio: quando ho letto quel passaggio di Dario ho pensato "chissà cosa ne penserebbe il buon Fabrizio, visto il suo amore per un certo cinema!" ;-) detto fatto (è bello avervi sempre così ligi, pronti e "sul pezzo"!)

Alessandro PG ha detto...

Grande cavalcata, benché più cinematografica che letteraria.
Il polar, però, credo che corra il rischio di scivolare nello psicologismo, nell'introspezione psicologica dei personaggi a discapito dell'azione tipica del noir, di ciò che i personaggi fanno - elemento che li
caratterizza e identifica, l'azione e non l'introspezione.
Il motivo è semplice: il noir è sociale e compie la sua "missione" tramite le relazioni, i rapporti tra i fatti per scoprire una verità sotterrata e scomoda; la dimensione sociale del noir è data dall'azione, dai luoghi, dal movimento nello spazio;
questa è una caratteristica narrativa tipica benché non la sola, forse quella principalmente usata per far emergere questa importante radice del noir, la sua provenienza.
Se invece prendo, ad esempio, Fred Vargas, dopo 70 pagine conosco tutte le elucubrazioni di Adamsberg e non è ancora morto nessuno (vedi "Sotto i venti di Nettuno"), né è accaduto granché.
Questa potrebbe sembrare una banalizzazione e una generalizzazione che, sono certo, non regge alla prova di tutti i fatti, ma il polar privilegiando la psicologia dei personaggi talvolta dimentica la dimensione sociale del noir
(Pietro Lu Sorgi fa, non pensa, ed altrettanto i Minghella, e in entrambi i casi è l'azione che li caratterizza pur neella loro unidimensionalità, all'interno di una storia, credo, di profonda denuncia e radicamento storico-sociale, di cui ora però non ricordo il titolo).
NoN so se ho centrato la mia analisi, ma è forse questo uno dei motivi per cui ogni tanto il polar mi entusiasma meno degli altri "sottogeneri" del noir.
Ps: Non credo sia un caso che Carlotto nel suo ultimo "Respiro corto", ambientato a Marsiglia, dissemini le canzoni Johnny Hallyday, tanto amato dal commissario Bourdet, per tutto il libro. Credo un omaggio, dovuto, al polar.

Anonimo ha detto...

Grazie per l'intervento. È esattamente quanto scrivo nel mio saggio uscito ormai quattro o cinque anni fa : piombo 70. Non sarei comunque cosí tranchant nel distanziare i due filoni. In italia la critica li ha sempre picconati e svalutati a priori mentre in francia grazie anche ai cahiers c'è sempre stata una attenta riflessione su questo approccio.
Non dimentichiamo poi che tutto il cinema di Di Leo è assolutamente noir non poliziesco (salvo alcune pellicole del primo e ultimo periodo) e alcuni attori che collaboravano con lui - adolfo celi, silva, steiger etc - non hanno corrispondenza qualitativa con gli interpreti d'oltralpe.
Il discorso va fatto con l'humus culturale della nazione che accoglie la pellicola e il filone tutto. In francia è sempre stato cosí. Ricordiamo che argento ebbe successo prima in francia con l'uccello e il gatto poi fu capito da noi

grazie ancora

dpmg

sartoris ha detto...

@Alessandro: oh qual buon vento, era un po' che non battevi un colpo... condivido la tua prospettiva: il polar ha una valenza psicologica assai preponderante (anche se nei romanzi - e nei film che ne trassero svariati maestri - di una americanissima come la highsmith questa dimensione assume un connotato molto europeo che secondo me potremmo considerare il ponte tra il noir e il polar)(discorso comunque foriero di molte, interessanti sfaccettature, ancora grazie a Dario!!!:-)

Alessandro PG ha detto...

Grazie a te, e voi tutti, per i consigli.
Non posso non concordare sulle precisazioni xché, io per primo, so quanto le generalizzazioni fatte non possano valere in ogni caso:
i due filoni non possono essere nettamente distinti; è "l'humus culturale della nazione che accoglie la pellicola e il filone tutto" che fa la differenza, cosa fondamentale.

Fabrizio ha detto...

Per me è sempre un piacere discutere con chi conosce la differenza tra il monnezza e il maresciallo Giraldi:-)) un saluto a tutti

sartoris ha detto...

@Dario Piombo 70 mi interessa molto, a naso, si trova ancora nelle librerie?

Anonimo ha detto...

Accidenti, ragazzi, qui non si mondano nespole... :-)
Fabio

Alessandro PG ha detto...

@Omar: è vero, è molto tempo che sono latitante, non so neanche io xché, ma so xché son tornato:
volevo vedere se avevi scritto qualcosa su "Crocodile rock" di Hiaasen, ma non c'era; invece ho trovato quest'altro bell'articolo.
Comunque, avevo comprato Crocodile Rock subito dopo la lettura di "Una donna di troppo" e, come talvolta capita, l'ho parcheggiato in lista d'attesa.
Ora invece, una volta preso, è accaduto quello che scrivevi tu su Hiaasen: "se incappi nella prima pagina, sei costretto a sciropparti tutto sino alla fine perché è davvero impossibile abbandonare un suo romanzo".
Ed è davvero così. Storia da lacrime agli occhi, libro passato sottobanco.
Le stesse (e diverse) lacrime che mi vengono se penso alla sorte, che non conosco bene, di Meridianozero, la casa editrice che fino a due anni fa ha sfornato i migliori noir, e dal catalogo incredibile, ed ora è passata di mano ed è diventato difficilissimo trovare i vecchi titoli. Che amarezza.

Alessandro PG ha detto...

@Dario Geraci:
Fortunatamente abito con un appassionato del poliziesco italiano e nella sua biblioteca c'è il tuo libro, Piombo '70. Ora non posso non leggerlo.

sartoris ha detto...

@Alessandro: Meridiano Zero è ora parte del gruppo Odoya: penso la tradizione del buon noir andrà a ramengo ma per intanto la nuova casa editrice si sta guadagnando parecchie simpatie in ambiti radical-chic (le copertine debordano sulla costina e fanno molto cool). Vedremo come butta, comunque io sono ottimista, certo, senza Marco Vicentini non sarà mai lo stesso!!!

Alessandro PG ha detto...

Esatto, Vicentini era il centro: credo fosse lui che sceglieva cosa tradurre e traduceva personalmente i libri.
Se guardo ai migliori titoli dietro c'è il suo nome o quello di Luca Conti.
Se il buongiorno si vede dal mattino (o dai primi lavori), io sono del tutto pessimista - vedo già i miei libri come ultimi esempi d'una stagione finita.

Anonimo ha detto...

Ottimo, grazie per la considerazione Alessandro.
@omar: ci sentiamp in pvt e ti dico