martedì 1 marzo 2011

un passo prima dello sfacelo (western)...

C'è stato un periodo, sul finire degli eighties - appena un passo prima di venire risucchiato da un decennio d'inarrestabile declino personale e professionale - in cui Mickey Rourke poteva impunemente permettersi qualsiasi mattana: forte del successo di alcune belle pellicole azzeccate che ne avevano esaltato le doti interpretative nonché la fama di bad guy, l'attore contribuiva di suo all'aura di maledettismo che critica e stampa scandalistica gli avevano affibbiato dando di continuo in escandescenze, frequentando compagnie turbolente, sfasciando hotel di prim'ordine e presentandosi ubriaco sui set dei film che lo vedevano protagonista. I produttori erano disposti a perdonargli tutto e nelle interviste di oggi, ritrovate le straordinarie qualità d'attore che al suo esordio fecero parlare di un «nuovo Marlon Brando» (e del quale, oltre alla bellezza, sembrò per un periodo avere ereditato soprattutto il disfacimento fisico e le manie autodistruttive), il buon Rourke non fa che rievocarli, quegli anni sregolati in cui, giocandosi al ribasso la rendita fornita dall'acclamazione pressoché unanime per cult come Angel Heart o L'anno del dragone, la star di Nove settimane e mezzo era capace di chiedere ed ottenere che un cineasta come Oliver Stone venisse messo alla porta solo perché indossava una giacca d'un colore troppo squillante oppure inveire contro Alan Parker invitandolo al corpo a corpo per una normalissima richiesta d'un ciak ulteriore rispetto alla tabella delle riprese. Poi, mentre i Novanta proseguivano la loro digradante cavalcata autolesionistica (è il decennio dei Nirvana e della Generazione X), l'attore americano cominciò a sbroccare: troppe liti con la stupenda moglie Carré Otis e troppi cicchetti ingurgitati nei festini della Città degli Angeli presero a minarne la lucidità mentre gli studios, pur continuando a riconoscerne le indubbie capacità, cominciano ad additarlo sbarrandogli l'accesso ai set, anche a quelli dei film più scalcagnati. L'ultimo fuorilegge (1994) è un'operetta figlia di quel preciso istante in cui la credibilità di Mickey è ridotta a un lumicino (e i suoi tratti cominciano a sfaldarsi sotto i colpi di boxe che l'attore pratica) ma ancora reminiscenze della sua bravura sopravvivono come un'eco tra gli addetti ai lavori. Così, dopo aver a lungo compulsato un soggetto che prima della prematura scomparsa il nostro grande Sergio Leone aveva pensato per lui e per Richard Gere (che grande film sarebbe stato!), all'attore capitò la ventura di partecipare a un western. Glielo propose la Tv, e già questo rende l'idea della china che la carriera di Rourke aveva imboccato, anche se invero trattavasi d'una produzione niente affatto grama: dietro la macchina da presa c'era infatti Geoff Murphy, già regista di Young Guns II, e il cast di attori in gioco rappresentava, per l'epoca, un piccolo tesoretto di promesse (per lo più mantenute): c'era infatti Steve Buscemi, Keith David e John C. McGinley (ora stella assoluta del serial Scrubs) ma anche un ottimo Dermot Mulroney e un sempre calzante Ted Levine (caratterista notissimo per il ruolo del serial-killer Buffalo Bill in Il silenzio degli innocenti). La storia (scritta da Eric Red, mica cotiche, uno cui si deve The Hitcher), incentrata su una banda di feroci fuorilegge che finita la Guerra Civile si mette a razziare i territori degli Stati del centro, è vagamente ispirata a 7 winchester per un massacro del nostro Castellari e possiede sicuramente un paio di belle scene sanguinolente e spettacolari, con omaggi - o saccheggi - sparsi a Peckinpah. Purtroppo ciò che non funziona e che manda completamente a ramengo l'intera operazione è proprio il nostro Randy The Ram: completamente avulso da qualsivoglia logica di verosimiglianza appare truccatissimo e impomatato come un novello Charles Bronson appena uscito dal parrucchiere; davvero troppo per essere un ex-colonnello sudista freddo e spietato che deve vendicarsi di chi l'ha tradito. Peccato, poteva essere un esperimento notevole e invece nisba. E pensare che il sadismo di certe scene indusse i distributori italiani a tagliarlo nei punti più cruenti, portandone la durata a 84 minuti. Vabe'...

4 commenti:

MATTEO STRUKUL ha detto...

Ho amato questo film, Rourke gigantesco, eccessivo, sopra le righe, istrionico, gigione ma a mio modesto parere straordinario, sfatto e infollito come pochi, sadico, pulp quasi quanto Robert Carlysle su "L'insaziabile", poi certo io a d o r o Rourke quindi forse mi lascio prendere la mano, resta il fatto he parliamo del più grande attore della sua generazione degli ultimi trent'anni, un delitto che sia stato defraudato da quel pirla di Penn di un oscar vinto e stravinto, eh eh, amen.

sartoris ha detto...

Io adoro Rourke e questo lo sai perfettamente, Matteo, ne parliamo spesso laggiù su Pegasus, però oggettivamente questo era il suo periodo peggiore... poi è chiaro, anche quando è sfatto uno come lui è comunque una spanna sopra agli altri (do you remember Harley Davidson & Marlboro Man? Uno dei film più assurdi e cafoni del nostro, eppure mi piacque assai:-))

Penn comunque è un caro amico di Rourke, nella sua autobiografia parla del talento di Mickey con riverenza, e infatti gli offrì una particina in LA PROMESSA quando nessuno più voleva saperne di Rourke sui set. :-)

MATTEO STRUKUL ha detto...

Certo, il punto è che ancora mi chiedo: ma come si fa a dare l'oscar a Penn per Milk e non a Rourke pe The Wrestler? Perchè? Perchè? Dico, ma stiamo scherzando?

sartoris ha detto...

Hai ragione, Matteo, in quel caso ci ho visto molta politica e sopratutto la volontà di punire il cattivo ragazzo da parte dello star-system!!!

(The Wrestler è un film gigantesco: visto Black Swan? Te lo consiglio vivamente:-)